Il Calenda…rio pseudo-draghiano

Il grande ministro Giovanni Marcora parlando (male) di un suo collega fisicamente grasso si chiedeva: dicono che sia pieno di sé, fosse così sarebbe magro. Attualmente nella categoria dei “pienissimi di seissimo” spicca Carlo Calenda, un politico improvvisato che ne sta combinando di tutti i colori: si è messo al centro della scena e non la molla più a costo di combinare cazzate gigantesche facendole cadere dall’alto. Le racconta bene, anche a lui si attaglia l’ormai famoso detto del “non sa un cazzo, ma lo dice bene”.

Se il centro politico moderato è occupato da personaggi così, ben venga l’estremismo rivoluzionario. Non merita l’attenzione che si è conquistato in un tira e molla vergognoso, che lo ha portato in pochi giorni ad allearsi col PD per poi strappare il patto in nome della difesa oltranzistica dell’agenda Draghi, meglio sarebbe dire “Calenda…rio Draghi”.

Avevo grandi aspettative su Mario Draghi, in buona parte ne sono rimasto deluso: se andiamo avanti così, con simili avvocati difensori al seguito, mi iscrivo al partito del “tempo perduto”. Ma lasciamo stare Draghi relegato nella sua dorata cartoleria.

L’altro contraente era Enrico Letta, capace solo di sfornare tattiche dell’ultimo minuto, che gli sfuggono immediatamente di mano. È successo con i cinquestelle, si è ripetuto con i calendiani, non escludo possa succedere a brevissimo termine anche con altri interlocutori interni ed esterni al suo partito. Pensando a lui mi ricordo la comica vicenda del magazziniere di una società calcistica giovanile. Mancando l’allenatore in prima gli fu affidata la squadra dei pulcini. Al termine del primo tempo vincevano cinque a zero. Volle fare il fenomeno: scambiò difesa ed attacco e…perse la partita per sei a cinque.

La strategia, se prescinde dalla fissazione di obiettivi e dalla scansione dei tempi per raggiungerli, rimane pura e semplice tattica, che va in crisi al primo stormir di fronde.  Per Letta si può aggiungere che non solo non ha una strategia, ma non sa nemmeno fare tattica. Parte regolarmente col piede sbagliato e incespica davanti al primo ostacolo.

La sua penosa segreteria ha debuttato con un improvvisato quanto illusorio femminismo ridotto alla ricerca di yes woman ed è proseguita con un piatto e insignificante draghismo: l’amico delle donne e di Draghi. Forse varrebbe la pena uscire da questo schema per puntare appena più in alto.

La partita col centro-destra è persa: meglio perderla con onore provando a segnare il gol della bandiera piuttosto che gettarsi scriteriatamente all’attacco col rischio di essere sepolti sotto una caterva di gol. Cosa voglio dire? Il Partito democratico abbia un sussulto di dignitoso ossequio verso un glorioso passato che non è riuscito ad interpretare, combatta per proprio conto una battaglia puntata su alcuni valori ben precisi, scelga candidati di alta qualità smettendola di concedere seggi a vanvera a personaggi squallidi e controproducenti, punti almeno ad essere il primo partito, quello di maggioranza relativa che non potrà essere tanto facilmente cestinato nel dopo-elezioni. Lasci che i Calenda, i Renzi, i Conte vadano a sbattere per loro conto. Poi si vedrà: a volte è meglio perdere con dignità. È meglio perdere la partita salvando la faccia piuttosto che perdere l’una e l’altra.

Tutti sostengono che il sistema elettorale costringa i partiti a fare le più strane alleanze pur di provare a vincere. Ma chi l’ha detto? Meglio perdere onorando la propria bandiera che inseguire la vittoria di Pirro. Si difende la democrazia e la Costituzione più con la coerente testimonianza o con la velleitaria battaglia elettorale? Nella confusione generale è meglio lasciar parlare la storia o urlare al presente? Gli specialisti dell’urlo non aspettano altro. E allora bisogna cambiare tattica, pardon bisogna avere un po’ di umile strategia.