A furor di puzzle

Il “maanchismo” è un atteggiamento politico colto, tempo fa, da Crozza con la sua impareggiabile ironia, che rappresenterebbe la volontà di dare vita ad un partito universale, buono per tutti e per tutte le stagioni, che non prende mai posizioni forti sugli argomenti. Cerchiobottismo, in sostanza: pensare ai lavoratori ma anche agli imprenditori, ai laici ma anche al Papa, tifare Juve ma anche Roma. Ma che – tifo a parte – può essere anche visto come un modo per cogliere la complessità dei temi, senza necessariamente ridurli e semplificarli a una contrapposizione tra il bianco e il nero. Se si può discutere sull’accezione del maanchismo – ma prevale di gran lunga quella negativa – non ci sono dubbi su chi sia stato in Italia il massimo esponente di tale “corrente” politica. Parliamo di Walter Veltroni.

Questo stile, che in un certo senso sciacquava nella modernità la storica teoria dell’egemonia gramsciana, sta trovando un’edizione riveduta e scorretta nella tattica elettorale di Enrico Letta, il quale, pur di provare ad arginare l’avanzata nazionalpopulista delle destre, sta andando al mercatino politico dell’usato assai poco sicuro per raccattare pezzi vecchi e nuovi in modo da confezionare propagandisticamente un puzzle, che rischia di assomigliare più ad un abito di Arlecchino che ad un artistico mosaico.

Le sigle da incamerare si sprecano, se ne inserisce una, ma ecco che le altre fanno fatica ad incastrarsi ed allora bisogna tagliare qualcosa per rendere compatibili e combaciabili tutti i pezzi. Se questa è sintesi politica, io sono Aldo Moro che dalla tomba grida al suo secondo e definitivo omicidio.

Il Partito democratico puntava fino a qualche giorno fa ad una alleanza con il M5S: l’impresa appariva ardua al limite dell’impossibile. Poi i grillini si sono masochisticamente chiamati fuori dai giochi e allora bisognava pure trovare un’alternativa tattica da praticare nel breve termine in vista delle elezioni anticipate. Il tutto avviene al di fuori dei contenuti: prima poteva valere il trapianto della costola pentastellata nel corpo della sinistra ora vale la chemioterapia draghiana per combattere il tumore destrorso.

Carlo Calenda sta diventando il salvatore della patria, l’imprescindibile personaggio a cui sacrificare la storia, i contenuti, i valori progressisti: quelli della sinistra socialista e cattolica che dovevano combinarsi virtuosamente nel PD (ci ho creduto, ma non ci credo più: non per colpa della storia passata ma per colpa di quella presente). È normale che a sinistra qualcuno arricci il naso anche se purtroppo deve fare ammenda per i propri arroccamenti metodologicamente e burocraticamente post-comunisti. In estrema sintesi faccio fatica a digerire che per battere la destra occorra andare a destra. Capisco la necessità delle tattiche in un sistema elettorale che le impone. Tuttavia la sostanza della strategia è fatta di obiettivi, mentre la tattica è costituita dai mezzi e dai tempi per raggiungerli. Se tatticamente parto indebolendo gli obiettivi per renderli raggiungibili, salta tutto.

Mentre la sinistra teme di perdere quel poco di identità che le è rimasto, Matteo Renzi probabilmente teme di essere stritolato nella morsa tattica Letta-Calenda e sta valutando se gli convenga tenersi le mani libere per giocare meglio nel dopo-sconfitta o se provare ad insinuarsi al momento giusto (quello del si salvi chi può) nelle alleanze con il suo indubbio acume politico rovinato dalla sua solita elefantiaca eleganza: capisce che il gioco è equivoco e molto discutibile, ma anche andare soli verso una vaga meta…

Così queste elezioni passeranno alla storia come “saga dei tatticismi e degli equivoci”: da una parte l’arrembante e spregiudicato populismo salvinian-meloniano temperato dal solito affarismo berlusconiano, dall’altra parte il “draghismo universale” molta forma e poca sostanza. Aveva ragione da vendere Sergio Mattarella a volerle evitare. Purtroppo ci siamo arrivati. La democrazia comincia il giorno dopo le elezioni. Sì, a condizione che le elezioni non ne diventino la tomba.