Il corto circuito che si è venuto a creare tra governo Draghi e maggioranza parlamentare ha portato alle perentorie, dignitose e realistiche dimissioni del premier. Al netto di tutte le questioni programmatiche oggetto dei contrasti e senza considerare i tatticismi più o meno inevitabili, mi sembra che la questione di fondo sia da una parte una certa qual riscossa politica che passa attraversa una diffusa insofferenza parlamentare, presente in parecchi partiti (M5S e Lega in particolare, ma non solo), dall’altra la conclamata incapacità draghiana di dialogare con i partiti e con i gruppi parlamentari e forse anche con i ministri politici.
Draghi, nella sua presunzione tecnico-professionale, ha ritenuto di potersene fregare altamente dei dolori di pancia partitici e anche sindacali, non capendo che i dolori intestinali possono degenerare… Un presidente del Consiglio ha costituzionalmente il compito di dare una linea politica al governo, facendo sintesi e non ignorando altamente i pareri e le posizioni diverse.
Prendiamo la questione dell’inceneritore di Roma: a prescindere dal merito, che senso aveva inserire questo provvedimento in un decreto legge in materia di aiuti e sostegni alla situazione di famiglie ed imprese. Come minimo un premier politico lo avrebbe immediatamente stralciato, vista l’accoglienza negativa riservata dal partito di maggioranza relativa. Invece si è voluto insistere creando una occasione di forte contrasto.
Il premier Draghi ha preteso troppo sul piano dei rapporti con le forze politiche: che i partiti siano in crisi di credibilità è innegabile, di qui a bypassarli continuamente e sistematicamente ci passa molta differenza. Si e sostanzialmente e metodologicamente creato un rapporto fra sordi.
Mio padre a volte, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto-quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Mio padre con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”. L’altro risponde: “No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.
A dialogare e collaborare bisogna essere in due: ecco perché rifiuto di dare solo al M5S la responsabilità della rottura. Mario Draghi ha le sue gravi responsabilità. Quando ha accettato l’incarico, pur contando sul proprio carisma e sulla propria autorevolezza, avrebbe dovuto comunque considerarne le difficoltà politiche per poi affrontarle col giusto atteggiamento deciso ma costruttivo.
Osservando criticamente l’operato del premier mi sono convinto che gli manchino la sensibilità e la capacità politiche per svolgere un ruolo di tale rilievo: strada facendo questo limite si è fatto vedere e sentire, mentre all’inizio poteva essere addirittura considerato un titolo di vantaggio per sveltire la manovra. La politica ha le sue regole da cui non si può prescindere, prima o poi si vendica.
Draghi ha giocato facile a livello internazionale (anche se, a mio giudizio, non bene nel merito), ma in casa, come spesso accade, non è riuscito a profetizzare più di tanto. Penso sia tardi per rimediare alle frittate. La politica ha avuto la presunzione di poter fare a meno di Draghi o di usarlo a proprio vantaggio, Draghi ha avuto la presunzione di snobbare la politica. Prima o poi doveva succedere quel che è successo e che, molto probabilmente, Mattarella ha fiutato da tempo senza riuscire a porvi rimedio.