Il 10 marzo scorso si è tenuto a Parigi, nella esagerata ed inopportuna cornice della reggia di Versailles, una riunione informale del Consiglio Europeo, l’organismo collettivo che definisce “le priorità e gli indirizzi politici” generali dell’Unione europea ed esamina i problemi del processo di integrazione. Per fortuna che si trattava di un incontro informale: a giudicare dalla ritualità e dalle liturgie adottate non si sarebbe detto e, se tanto mi dà tanto, quando i capi delle nazioni europee si riuniranno in seduta formale, probabilmente chissà quale sfarzo verrà adottato. Non mi piacciono le parate clericali, dove tuttavia la liturgia comporta dei segni efficaci, figuriamoci se sopporto quelle civili in un momento in cui la sobrietà dovrebbe essere imposta dalla gravissima situazione internazionale che stiamo vivendo. Evidentemente il lutto non si addice alla Unione europea. Non si tratta soltanto di smargiassate scenografiche, ma temo sia un modo per nascondere la debolezza se non l’inconsistenza della Ue in un frangente tanto drammatico e complesso.
Durante un dibattito a La7, il professore Alessandro Orsini ha fornito un’analisi sulle tensioni attualmente in atto fra Russia e Ucraina. «Possiamo uscire da questo inferno soltanto se riconosciamo i nostri errori» ha affermato il docente, riferendosi all’Unione europea. Dopo aver condannato l’invasione voluta da Putin e attribuitogli la paternità della responsabilità militare, Alessandro Orsini ha fatto poi un’affermazione che, in un contesto di informazione che tende al senso unico, ha fatto scalpore: «La responsabilità politica di questa tragedia è principalmente dell’Unione europea. In primo luogo, perché questa era la guerra più prevedibile del mondo». L’analisi è continuata poi su un parallelismo con la crisi missilistica di Cuba, fino a delineare uno schema di comportamenti che «va avanti da centinaia di anni e che accomuna tutte le grandi potenze», quello delle cosiddette “linee rosse” da non valicare. Ed è qui che Orsini pone l’accento per una seconda critica all’Unione europea, colpevole di non aver saputo o potuto imporre alcuna linea rossa all’interno del sistema internazionale. L’ideale, secondo il professore della Luiss, sarebbe stato «rifiutare drasticamente qualunque politica capace di mettere in pericolo la vita degli europei», riferendosi dunque alla possibilità di un’apertura della NATO a est (questo il breve resoconto fornito dal giornale online “L’Indipendente”).
Orsini è stato messo alla gogna per avere avuto l’ardire di mettere l’Europa di fronte alle proprie responsabilità ed ai propri errori. Il suo intervento critico pone due questioni, una di metodo e una di merito. Quanto al metodo, sono personalmente portato ad andare contro-corrente e quindi rifiuto aprioristicamente il cosiddetto pensiero unico. L’ho fatto in merito alla guerra contro il virus, lo faccio anche per la guerra contro l’Ucraina. Dal momento che non esistono più la politica e il dibattito politico, il discorso si è spostato a livello mediatico e lì il potere si fa vivo e vegeto, imponendo (quasi) sempre una versione unilaterale dei problemi: chi si smarca è perduto. Orsini ha detto una frase importantissima, rivolgendosi a Mario Calabresi e tramite lui a tutti i coccodrilloni che parlano e scrivono a raffica: “gli studiosi e i giornalisti hanno il dovere di pensare”. Siamo invece purtroppo inseriti in un vortice pseudo-informativo e a-culturale molto fuorviante e pericoloso. Bisogna sforzarsi di reagire e di non portare il cervello all’ammasso. Non ha tutti i torti chi teorizza e pratica la distrazione, sintonizzandosi su trasmissioni leggere come a liberarsi da un giogo. A volte mi chiedo se sia più superficiale “striscia la notizia” o “non è l’arena”. Mi viene sempre in mente quanto diceva il vescovo di Acerra, monsignor Riboldi: sono più pornografici certi spettacoli perbenisti che la pornografia pura. Dai primi non ti puoi difendere, dalla seconda sì perché la riconosci facilmente.
Nel merito credo che il punto focale delle analisi di Orsini stia nel difficile equilibrio tra realpolitik e scelte ideali. Il comportamento dell’Occidente nei confronti della Russia di Putin è stato improntato ad un pragmatismo eccessivo e imbarazzante di cui oggi soffriamo le conseguenze. Anche l’Italia non è stata da meno. É quindi scorretto non ammettere colpe e responsabilità nel passato remoto e recente, rifugiandosi nella comoda idealità e in una astratta difesa della libertà e della democrazia. Gli applausi a Zelensky sono inopportuni, demagogici e strumentali: servono solo a tentare di mettersi a posto la coscienza piuttosto sporca.
Adesso che fare? Innanzitutto smetterla di predicare bene e razzolare male. Fare un po’ di silenzio non guasterebbe alla causa ucraina ed a quella della pace mondiale. Parlare nei posti e nei modi giusti per rimediare diplomaticamente ad una serie clamorosa di errori. Ecco perché servono gli impietosi esami di coscienza e non servono a nulla le ostentazioni politiche come quella di Versailles.
Non è un caso che fino ad ora l’unica ripercussione positiva a livello europeo sia quella di un certo qual ricompattamento degli Stati-membri sul discorso dell’immigrazione con apertura notevoli ai profughi ucraini. Non so se il discorso terrà nel tempo, ma comunque è un primo passo positivo. Poi vengono i sostegni effettivi all’Ucraina, l’equa ripartizione dei costi conseguenti alla guerra, una politica veramente comune nei rapporti internazionali a cominciare dall’azione diplomatica da mettere in campo immediatamente per far cessare le ostilità.
Ho l’impressione che la Ue giochi di rimessa, aspettando gli Usa, la Cina e finanche gli Stati perduti con o senza collare. Mio padre sosteneva che quando si vivono certe situazioni di grande tensione a parlare si sbaglia sempre. È vero, ma in certi casi drammatici tacere non è possibile. Certo che prima di parlare bisognerebbe pensare e avere qualcosa da dire e soprattutto avere la credibilità per essere ascoltati. Che la Ue ci provi.