Eroismo resistenziale e riscossa diplomatica

Ritorno sulla provocatoria domanda posta dal giornalista Antonio Padellaro: “L’Occidente rischia di essere prigioniero dell’eroismo di Zelensky e del popolo ucraino?”. La resistenza ucraina è sorprendente e commovente. Penso che anche Putin ne sia rimasto colpito e che non l’avesse considerata nei suoi calcoli. Non possiamo sbarazzarci di essa retrocedendola a mera lotta di sopravvivenza oppure aggrapparci ad essa promuovendola a schema per l’impostazione dei rapporti internazionali.

Quante volte ho sentito sbrigative analisi storiche che concludevano affermando che durante la seconda guerra mondiale “la resistenza” non è stata decisiva: se non ci fosse stato l’intervento americano forse in Italia staremmo ancora combattendo contro i nazisti ed i repubblichini. Respingo categoricamente questo cinico e militaristico modo di pensare. La resistenza non solo ha contribuito concretamente a vincere il nazifascismo, ma ha sensibilizzato e coinvolto in questa lotta la popolazione ed è diventata il presupposto per un futuro di libertà e democrazia. Sarà così anche per l’Ucraina.

Azzardo un impietoso giudizio sul crollo del comunismo nei Paesi dell’Est europeo: non è stato preparato da una vera e propria resistenza di popolo e se ne vedono le conseguenze. Gli Stati dell’ex Unione sovietica sono tuttora prigionieri del loro passato di cui fanno fatica a liberarsi: non è bastato il crollo del muro di Berlino per scrollarsi di dosso una mentalità ed una cultura politica, non è bastato aderire all’Unione europea o alla Nato per sposare i presupposti del sistema democratico. L’Unione sovietica è implosa per la sua debolezza economica e chi si è liberato (?) di essa è tuttora alla ricerca della vera democrazia, cadendo spesso in tentazioni di stampo reazionario improntate a razzismo, nazionalismo e populismo.  Forse i nuovi Stati dell’Est sono frutto più di colpi di stato e l’equilibrio all’interno di essi e fra di essi ne risente in modo drammatico.

L’Occidente quindi non può sostituirsi al processo di auto-democratizzazione, anche perché la democrazia non è merce da esportazione. Tuttalpiù può doverosamente fornire un aiuto ed un sostegno. Bisogna partire di qui per affrontare il discorso dell’Ucraina. Intendiamoci bene non sto ipotizzando che al grido di dolore di questa popolazione si debba rispondere con un secco e cinico rinvio del tipo “aiutati che l’Occidente ti aiuta”, ma non penso nemmeno sia praticabile una mondializzazione della difesa ucraina col rischio di scatenare una guerra nucleare. La difesa in senso democratico dell’indipendenza e dell’autonomia di questo Paese non si fa con le bombe, ma con la diplomazia.

Devono capirlo anche gli ucraini pur nella disperata situazione in cui si trovano. È pur vero che non possono accontentarsi di applausi, di risoluzioni, di parole forti, nemmeno può bastare l’ospitalità verso i migranti, ma è altrettanto vero che non hanno bisogno di un intervento militare da parte dell’Occidente.  Sarebbe una triste illusione foriera di guai ben peggiori per loro e per tutti.

L’offensiva diplomatica però, si deve ammetterlo, è molto debole, poco autorevole, per nulla stringente e credibile. Tutti si interrogano chi debba mediare al tavolo delle trattative. Si fa molta fatica a trovare protagonisti in grado di mettere Putin con le spalle al muro. La crisi di classe politica è generale e non conosce confini. Da quando scoppiò la pandemia da covid 19 si intuì che in Europa c’erano due personaggi in grado di affrontare la situazione emergenziale: Angela Merkel e Mario Draghi. Siamo ancora lì, a maggior ragione dopo lo scoppio dell’emergenza bellica. Non nutro fiducia sconfinata in questi due autorevolissimi personaggi, ma ammetto che una loro combinazione diplomatica possa tentare di mettere Putin di fronte alle proprie responsabilità e di aprirgli l’angolo visuale sui rischi che sta correndo.

Non si perda tempo. Si provi. È doveroso farlo anche perché è l’unica risposta plausibile alle aspettative del popolo ucraino e l’unico modo per accettare la provocazione proveniente dalla sua eroica resistenza. Ho visto i giovani ucraini impegnati pacificamente nella difesa del loro patrimonio culturale (i libri delle più importanti biblioteche) al canto di inni patriottici. Non possiamo far finta di non vedere e non sentire. Facciamo quanto è nelle nostre possibilità pacifiche: dialoghiamo, trattiamo, attacchiamo diplomaticamente.

In una recente puntata del programma televisivo “otto e mezzo” su La 7, è apparso un importante sacerdote russo ortodosso, padre Giovanni Guaita, coraggiosamente schierato contro la guerra di Putin (una posizione contro-corrente rispetto alle storiche compromissioni ortodosse col potere sovietico prima e russo oggi. “Brutta gente” sentenziava mia sorella…). Lilly Gruber al termine del suo intervento gli ha chiesto quali fossero le sue speranze. Lui ha risposto con la speranza “debole” che la situazione economica costringa Putin a più miti consigli a cui ha aggiunto, con ammirevole discrezione e convinzione, la speranza “forte” che Dio non ci abbandoni e ci aiuti ad uscire dal tunnel.

Anch’io ripongo la pur doverosa e fattiva speranza debole nelle mani della diplomazia europea (visto che alle altre potenze, leggi Usa e Cina, l’Ucraina interessa assai poco), ma mi sforzo di porre tanta fiducia in Dio. Ce lo ha insegnato il grande Giorgio La Pira, che, non dimentichiamolo mai, incontrava i leader dell’Unione Sovietica, ma si faceva accompagnare dalle impetrazioni delle monache di clausura. E lo confessava apertamente, correndo il rischio calcolato e desiderato di suscitare ironico stupore. Non pretendo questo da Merkel e Draghi, anche se non guasterebbe.