Beghe di frati e beghe di laicisti

Ricordo sempre con piacere quanto, laicamente ma soprattutto ragionevolmente, affermava Indro Montanelli da me ripetutamente citato in ordine a certe disquisizioni moralistiche della Chiesa.

Oltre dieci anni fa scrivevo: “E’ perfettamente inutile e sbagliato rifugiarsi nella reazione scandalizzata all’installazione di distributori di preservativi nelle scuole: è forse meglio la diffusione di malattie, la rassegnazione ad incidenti di percorso che possono sconvolgere l’esistenza delle persone?

Non ha senso colpevolizzare le varie metodiche di controllo delle nascite insistendo sull’assurdo concetto dell’automatica connessione tra sessualità e procreazione: ma dove è scritto, chi l’ha detto, quale senso ha?

Come è possibile considerare il profilattico un’arma demoniaca persino davanti al flagello dell’aids: siamo al delirio etico! Quale senso evangelico ha considerare l’indissolubilità del matrimonio non come un impegno ma come una palla al piede da portarsi dietro per tutta la vita, pena l’esclusione dai sacramenti, vale a dire dall’essenza della salvezza per ogni cristiano: siamo all’edizione riveduta e scorretta del limbo per i non battezzati. Perché vietare a chi ha tendenze omosessuali la possibilità di inquadrare questa realtà di vita in un contesto di amore e di affetto?

E non sono, come diceva Indro Montanelli, beghe di frati le disquisizioni sull’inizio della vita umana atte a vietare la pillola del giorno dopo? Per non parlare dell’accanimento anti-eutanasia che finisce con l’inchiodare ad un letto di dolore chi chiede sommessamente di mettere fine alla crudeltà della vita? Ma cerchiamo di essere seri! Pensiamo che il Padre Eterno userà il cronometro per giudicarci? O non piuttosto il cuore, soprattutto il suo ma anche il nostro.

E non assume il significato di vuoto dogmatismo escludere a priori ed in ogni caso le pratiche abortive arrivando a condannarle persino in casi di drammatica ed evidente necessità? E non sembra cattiveria l’atteggiamento ostile verso pratiche abortive meno invasive e dolorose: una sorta di gara a rendere difficile l’aborto, come se fosse un insano divertimento”.

Ebbene devo ammettere che non esistono solo le beghe dei frati, ma anche quelle dei laicisti: non so diversamente definire l’annosa e stucchevole questione del Crocifisso esposto nei luoghi pubblici. Direbbe mio padre: “Mo che fastìddi ag dal?”. Infatti, mi chiedo anch’io quale ingombro culturale possa dare la Croce di Cristo, che è proprio il segno estremo dell’umiltà e della pazienza verso tutto e tutti.

E giù dibattiti e sentenze a non finire. Esporre il crocifisso nelle scuole non è una condotta discriminatoria. Lo ha stabilito la Suprema Corte, che, nella sua composizione più autorevole – le Sezioni Unite – con la sentenza 24414/2021, ha chiarito definitivamente che il maggiore simbolo del cristianesimo può rimanere nelle aule. Basta che a volerlo sia «la comunità scolastica», la quale può anche decidere di accompagnarlo «con i simboli di altre confessioni presenti in classe – così si esprime il comunicato stampa diffuso dalla Cassazione – e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi».

Non ci volevano gli ermellini della suprema corte per arrivare a tanto, bastava un po’ di buon senso. Siamo al fariseismo a rovescio: c’è infatti quello delle gerarchie cattoliche con una pletora di regole da rispettare anche e soprattutto nel campo della morale sessuale, ma c’è anche quello altrettanto fastidioso e penoso di chi vuole fare la battaglia al cristianesimo con le regole dello Stato.

In sede religiosa guai a chi si permette un atto sessuale al di fuori del matrimonio e della procreazione, pazienza se il morigerato e scrupoloso osservante non paga le tasse o discrimina i poveracci che si aggirano nel mondo in cerca di giustizia.

In sede laicista guai a chi si permette di esporre il crocifisso considerato come un simbolo offensivo e discriminatorio della libertà religiosa, pazienza se chi crede in questo Dio crocifisso sacrifica la sua vita a servizio degli emarginati e di quanti la nostra bella e laica società non riesce a soccorrere e ad assistere.

Sarebbe ora di andare al sodo: da una parte cominciare a parlare e praticare la fede come adesione al messaggio evangelico e non come rispetto della religione quale raccolta di regole, formule e atti rituali; dall’altra parte pretendere che il potere religioso, che non è quello proveniente dalla Croce, non interferisca col potere civile, senza paura, come afferma monsignor Stefano Russo esponente della Cei, del “cristianesimo di cui è permeata la nostra cultura, anche laica, che ha contribuito a costruire e ad accrescere nel corso dei secoli una serie di valori condivisi che si esplicitano nell’accoglienza, nella cura, nell’inclusione, nell’aspirazione alla fraternità”.

Concludo richiamando un famoso aforisma (?) secondo il quale “Alcide De Gasperi andava in chiesa per pregare, mentre Giulio Andreotti frequentava la chiesa per confabulare coi preti”. Mi pare la sintesi del discorso che distingue il laico dal laicista: il vero laico può tranquillamente rispettare chi prega ed espone il crocifisso dove e come vuole; il laicista si preoccupa di evitare le combutte fra Chiesa e Stato vedendole anche dove non sono, vale a dire appese ad una Croce.

Detto in altro modo, aggiungo una considerazione, che sarebbe piaciuta molto a mia sorella Lucia: la Chiesa smetta di voler insegnare la politica ai politici e la lasci ai laici; i laicisti smettano di voler insegnare la religione alla Chiesa mettendola all’angolo.