Roberto Saviano, noto scrittore e autore di alcuni bestseller letterari, fra cui “Gomorra”, intervenendo sulle colonne de “Il Corriere della Sera” con un articolo a sua firma inerente alla figura di Maria Licciardi, boss della Camorra arrestata nei giorni scorsi, ha lanciato una forte provocazione culturale, mettendo in discussione il ruolo chiave della famiglia nella nostra società. Un’analisi che può sbrigativamente essere sintetizzata con il finale del suo pezzo: ”Quando mi chiedono quando finiranno le mafie, rispondo quando finiranno le famiglie. Quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti d’affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite”.
In realtà Saviano è partito dal concetto di famiglia a misura camorristica: “La famiglia è il mezzo e il fine del profitto, il sangue è la garanzia unica della fiducia. Fidati solo del tuo sangue è l’imperativo. Non perché il tuo sangue sia migliore di altri, ma perché nessun rivale crederà mai al tradimento di un tuo parente e quindi sarà costretto ad esserti fedele”.
Poi afferma: “Se non esistesse il concetto di famiglia, non esisterebbero le organizzazioni criminali. La famiglia è innanzitutto organizzazione, è mutuo soccorso, ma solo verso chi ha il merito di condividere lo stesso sangue. Il matrimonio è un patto economico tra gruppi. I figli sono protezione del patrimonio e eredità. Le amicizie sono momentanee e utili se arrecano vantaggio”.
Questo ragionamento, però, a detta di Saviano, andrebbe applicato anche alle famiglie non criminali, ma appartenenti al capitalismo contemporaneo, “macchina di controllo e competizione, di accordo e feroce ricerca di profitto”. E qui è scoppiata la polemica, molto strumentale ed assai poco culturale. In mala sostanza lo stanno dipingendo come un rivoluzionario del piffero, un evasore o eversore sociale, un visionario pro domo sua.
Non sono iscritto al partito della famiglia, anche se in essa credo, non fosse altro alla luce della mia esperienza. Non la ritengo tuttavia l’assoluta base su cui costruire la società perfetta o, per meglio dire, la meno imperfetta possibile. Non condivido l’enfasi contenuta in tante analisi sociologiche e religiose che fanno dipendere tutti i mali del mondo dalla crisi delle famiglie tradizionali. La famiglia è un’arma a doppio taglio, dipende tutto da come la si intende e la si vive: può essere la fucina per costruire rapporti virtuosi, ma può essere anche una scuola di egoismo e l’occasione per la manipolazione delle coscienze.
Se la vogliamo buttare sul senso religioso della vita andando al Vangelo, dobbiamo ammettere che Gesù non fa, né in teoria né in pratica, il panegirico della famiglia. Per quanto lo riguarda direttamente sta bene attento, fin da fanciullo a non farsi condizionare troppo (vedi lo strano episodio del ritrovamento di Gesù nel tempio) dai legami famigliari. Quando lo vogliono mettere in imbarazzo dicendogli che i suoi parenti lo stanno cercando, reagisce “in malo modo”, sostenendo di non avere parenti se non in coloro che fanno la volontà di Dio, quella che lui sta annunciando. In altro momento Egli lascia chiaramente intendere che i legami di parentela carnale vengono dopo quelli di parentela spirituale: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me».
Dio, patria e famiglia è la triade che, non a caso, in epoca moderna è stata un’idea cardine dell’ideologia fascista, poi ripresa e riproposta sotto nuove forme da partiti di estrema destra. Non per questo la famiglia deve essere buttata nel cestino in nome di chissà quali nuovi assetti umani e sociali. Occorre equilibrio, ma al contempo bisogna anche avere il coraggio di inserire il discorso in un contesto moderno alla ricerca anche di prospettive nuove. Per dirla in poche battute, non facciamo della famiglia un totem ideologico, ma una fondamentale occasione per incarnare i valori positivi che dovrebbero stare alla base del vivere civile.
Non capisco, e, se le capisco, non le condivido affatto, le reazioni scomposte e bacchettone di quanti morivano dalla voglia di attaccare Saviano per motivi politici e quindi hanno preso spunto da questo sasso da lui lanciato nella piccionaia del nostro perbenismo per squalificare la sua coraggiosa, anche se talvolta un po’ troppo sofisticata e manierata, azione di denuncia dei fenomeni mafiosi in senso lato. Uno dei mali della nostra società, che probabilmente sta a monte anche della crisi della famiglia, consiste nell’incapacità di dialogare e quindi di accettare in positivo anche le più forti provocazioni.
Sarà perché ho l’innato gusto per la provocazione, ereditato da mio padre, ma mi piacciono i provocatori, quelli veri si intende. D’altra parte Gesù non è forse il più grande provocatore di tutti i tempi. E Roberto Saviano è un sano fustigatore di costumi e un impietoso ricercatore dei mali della nostra società.
Tanto tempo fa, in clima di piena contestazione giovanile, alla vigilia della visita pastorale del vescovo nella mia parrocchia, un gruppetto di “scapestrati” e fantasiosi ragazzi si pose il problema di trovare un eloquente gesto per attirare l’attenzione della comunità e rompere il clima di ovattata accoglienza. Dopo una lunga discussione intervenne il parroco, assai preoccupato per i clamorosi effetti di un gesto avventato e scomposto. Fulminò tutti con una battutaccia: “Quand rivä al vèscov, fi ‘na béla pisäda davanti a la céza…”.
Non credo che Roberto Saviano faccia delle pisciate fuori dal buco, semmai le sue sono contro il vento del conformismo. Sono i vari amici del giaguaro, che lo vogliono incastrare, accusandolo di virtuali o letterari svarioni, a pisäros adòs da la paura che possa cambiare qualcosa in questa società di merda o, se volete, a pisär pr ària, imprecando contro chi osa mettere in discussione l’omertoso status quo.