Coi tatuaggi non si scherza

Andrea Colonnetta, 22 anni, di Reggio Calabria, studente di Scienze economiche, ha deciso di farsi tatuare il Green Pass sul braccio. L’immagine, che il ragazzo ha postato su Instagram, ha immediatamente fatto il giro del web.  «Così ce l’ho sempre con me» ha scritto il ragazzo sul web condividendo il tattoo, realizzato da Gabriele Pellerone. Il ragazzo ha spiegato così la scelta: «È stato come dipingere un momento particolare della mia vita. Ho voluto rappresentare le difficoltà del momento attraverso un tatuaggio che resterà indelebile e rappresenterà un periodo storico della mia esistenza».

L’autore del tatuaggio ne ha immortalato le fasi di realizzazione sul suo profilo Facebook con tanto di prova finale, la verifica che il Qr code, una volta inquadrato con uno smartphone, riportasse effettivamente all’indirizzo web collegato.  Andrea e Gabriele l’hanno testato andando al McDonald’s, anche se hanno dovuto insistere un poco per convincere la persona all’ingresso del locale a scansionare il Qr sul braccio. «Ci si tatua per diversi motivi – ha scritto in un post Pellerone – anche per ricordare un periodo storico come questo, e tutto ciò che ha generato o lasciato durante il suo percorso». «A prescindere da ciò – ha concluso – non esiste un modo oggettivo di vedere le cose, che sia nel bene o nel male, ogni persona ha una storia da raccontare ed un proprio modo di vedere o interpretare ogni cosa, oltre ogni forma di pregiudizio».

E i social si sono subito scatenati con una valanga di commenti. Qualcuno ha subito fatto notare che il Green pass dura solo nove mesi: «E dopo? Non lo può più usare». Altri approvano la scelta di Andrea: «Il tatuaggio è personale. Questo è sicuramente stato un momento che ha cambiato la vita di tutti, pertanto ritengo originale e bello il tatuaggio. Fra 50 anni questo ragazzo avrà una storia da raccontare parlando del suo tatuaggio», si legge sotto l’immagine del Green pass tatuato. «Ricorderà per sempre questo momento difficile che stiamo vivendo», scrive ancora un altro.  (notizia presa da La stampa del 21 agosto 2021).

Da patentato matusa qual sono, non sono ancora riuscito a capire cosa ci sia di interessante nei tatuaggi esibiti da tante persone, a volte in modo clamorosamente esteso a quasi tutto il corpo: una moda, una originalità che non è più tale, un tentativo disperato di comunicare chissà cosa, un semplice esibizionismo, una protesta contro la superficiale e levigata bellezza dei corpi? Ecco perché ho, in un certo senso, apprezzato l’iniziativa del giovane di cui sopra, che almeno ha voluto dare un esplicito significato al suo tatuaggio: una sorta di testimonianza storica di un periodo da non dimenticare.

Tuttavia non vorrei che nel subconscio di questo ragazzo ci fosse, ingenuamente e involontariamente, un richiamo a qualcosa di assai più inquietante, una sorta di tacito esorcismo verso un passato tragico.  Hanno recentemente scritto i filosofi Giorgio Agamben e Massimo Cacciari: “Ogni regime dispotico ha sempre operato attraverso pratiche di discriminazione, all’inizio magari contenute e poi dilaganti. Non a caso in Cina dichiarano di voler continuare con tracciamenti e controlli anche al termine della pandemia. E varrà la pena ricordare il “passaporto interno” che per ogni spostamento dovevano esibire alle autorità i cittadini dell’Unione Sovietica. Quando poi un esponente politico giunge a rivolgersi a chi non si vaccina usando un gergo fascista come “li purgheremo con il green pass” c’è davvero da temere di essere già oltre ogni garanzia costituzionale”. 

Già il green pass porta comunque in sé qualcosa di discriminatorio, non aggiungiamogli ulteriori segni distintivi sulla pelle o magari sugli abiti. Potrebbe essere un’idea per gli stilisti e i creatori di moda…

Come non ricordare la macabra e orrenda prassi adottata nei lager nazisti. Il numero era tatuato sul braccio sinistro del prigioniero, dapprima attraverso uno speciale timbro di metallo, sul quale venivano fissate cifre interscambiabili, fatti di aghi della lunghezza di un centimetro e successivamente attraverso l’uso di singoli aghi, utilizzati per eseguire punture sull’avambraccio. Dalla pratica del tatuaggio erano esentati i cittadini tedeschi e i prigionieri “da educare”, nonché i detenuti provenienti da Varsavia durante l’insurrezione dell’Agosto-Settembre 1944 ed alcuni ebrei deportati dopo il 1944.

Il numero di matricola, inoltre, era impresso su un pezzo di tela cucito sul lato sinistro della casacca, all’altezza del torace e sulla cintura esterna della gamba destra dei pantaloni. Al numero era associato un contrassegno colorato, che identificava le diverse categorie di detenuto:

  • un triangolo rosso identificava i prigionieri politici, nei cui confronti era stato spiccato un mandato di arresto per ragioni di pubblica sicurezza;
  • una stella a sei punte di colore giallo identificava i prigionieri ebrei; dalla metà del 1944 gli ebrei vennero contrassegnati come le altre categorie, ma con l’apposizione sopra il distintivo triangolare di un rettangolo di stoffa giallo;
  • un triangolo verde identificava i prigionieri criminali comuni;
  • un triangolo nero identificava gli asociali;
  • un triangolo blu veniva attribuito agli immigrati, agli apolidi e ai rifugiati all’estero della guerra Repubblicana di Spagna;
  • un triangolo viola identificava i testimoni di Geova;
  • i religiosi cristiani ricevevano il triangolo di colore rosso, perché generalmente internati in seguito ad azioni rivolte contro l’autorità;
  • un triangolo rosa identificava i prigionieri omosessuali;
  • un triangolo marrone identificava i prigionieri zingari.

Forse (?) ho esagerato, ma l’ho fatto per rendere l’idea e mettere in guardia un po’ tutti, ma anche quell’ingenuo giovane, che ha voluto ricordare con un tatuaggio un periodo storico. Ci sono dei tristi precedenti, quindi meglio lasciare perdere la storia e tornare alla pur triste attualità, per la quale facciamo di tutto, finendo col renderla ancora più triste.