Stiamo penosamente sfogliando la margherita ronaldiana: resta o se ne va? Sono totalmente indifferente alla questione e peraltro piuttosto infastidito dalla sarabanda mediatica dei nullapensanti e dei tuttoparlanti. Ma chi se ne frega se Ronaldo resta alla Juventus o parte per andare in qualche altro club a spillare milioni? La tifoseria sarà in grande ansia: scommetto che gli juventini sfegatati saranno più preoccupati del futuro di Ronaldo che del futuro dell’Afghanistan. Così va il mondo…
C’è una sorta di vomitevole alleanza tra i vip del pallone alla ricerca di guadagni pazzeschi e i servi furbi e sciocchi del sistema pallonaro, vale a dire i giornalisti sportivi alla caccia dello scoop e delle chiacchiere (forse il calcio è diventato lo sport più chiacchierato e meno praticato del mondo) e i tifosi che si lasciano abbindolare da questi squallidi personaggi sempre in cerca di farlocche ribalte e di soldi veri.
Molti hanno criticato la scelta del Milan che ha lasciato andare il portierone Donnarumma, l’eroe nazionale. Non so se il club rossonero abbia guadagnato da questa decisione, non mi interessa più di tanto: ha certamente migliorato in credibilità e serietà.
Non so se il Parma calcio abbia fatto un affare ad ingaggiare Luigi Buffon, un divo a fine carriera, in cerca di ulteriore gloria fasulla: il successo mediatico è stato enorme. Staremo a vedere i risultati sul campo, anche se ormai contano poco, valgono il clamore ed il fumo: il Parma ha trovato così il modo di essere nell’élite del calcio nonostante la retrocessione in serie b.
Sarò ripetitivo al limite dell’arteriosclerosi, sarò un esagerato fustigatori di costumi, sarò quel che sarò, ma per l’ennesima volta mi butto a capofitto su quanto sosteneva mio padre in materia di divismo calcistico. I suoi insegnamenti sono estremamente attuali: se vivesse oggi sarebbe ancor più duro, anche se aveva il pregio di usare più l’ironia del disprezzo.
Fin dalla mia fanciullezza era forte, quasi irresistibile, in me la spinta a vivere gli eventi in tutti i loro aspetti, nel loro divenire, senza fretta, come quando si beve una buona bevanda e la si centellina volutamente. Andavo allo stadio con mio padre, che mi faceva da guida tollerante ma saggia. Allora eccoci al prepartita, che, grazie a Dio, non era fatto delle odierne chiacchiere assurde di schiere di commentatori prezzolati o dei rituali tafferugli tra gruppi di tifosi, ma era costituito dall’osservare da vicino il riscaldamento degli atleti di “casa”, i miei beniamini (mi accontentavo di poco rispetto alle star superpagate di oggi), negli spiazzi intorno alle gradinate. Mio padre accondiscendeva a costo di perdere qualche buona posizione sulle gradinate di curva e sopportando un piccolo quanto innocuo divismo: non ricordo con precisione, ma credo che qualche volta, per conferire una punta di umanità alla scena, mi abbia supportato nello stringere la mano a quelli che lui sapeva essere i miei “preferiti” (ricordo con tanta nostalgia Beppe Calzolari fra tutti). Allora tutto aveva una dimensione umana ben lontana dall’anonimo, industriale, artificioso, violento divismo calcistico di oggi.
Mio padre pretendeva molto, addirittura l’impossibile, dai grandi campioni superpagati, arrivava alla paradossale esigenza del goal ad ogni tiro in porta per un fuoriclasse come Zico (col da la ghirlanda) incoronato re di Udine al suo arrivo nella città friulana: cose da pazzi! Ma non solo con Zico anche con altri cosiddetti fuoriclasse: mio padre non accettava gli ingaggi miliardari, ne avvertiva l’assurdità prima dell’ingiustizia, faceva finta di scandalizzarsi, ma in realtà coglieva le congenite contraddizioni di un sistema sbagliato. Mi riferisco al sistema calcio ma anche al sistema più in generale. E capisco mio padre che non era capace, per sua stessa ammissione, di farsi pagare per il giusto, che non osava farsi dare del “lei” dai garzoni, che aveva uno spiccato senso del dovere e non concepiva, nella sua semplicità di vita, questi enormi guadagni. Sogghignava di fronte agli scandalosi ingaggi: “Mo co’ nin farani äd tutt chi sòld li, magnarani tri galètt al di?”. Scherzi a parte mio padre era portatore di un’etica del dovere, del servizio e reagiva, alla sua maniera, alle incongruenze clamorose della società.
Amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Direbbe oggi: “Se a Pärma a véna Cristiano Ronaldo i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorèzon adrè.”
Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.