Quando si avvicinavano le feste di Natale mio padre registrava quasi con fastidio, con un notevole senso di sorpresa, una ricorrente domanda che gli veniva formulata “Indò vät par Nadäl “. Questo succedeva nel periodo delle vacche grasse, perché, quando regnava sovrana la miseria, tali richieste sarebbero risuonate assurde per non dire offensive. E la risposta, pronta e spontanea anche se un po’ risentita e giustamente provocatoria, fulminava l’interlocutore: “Tutti, s’ j én lontàn, i fan di vèrs da gat par gnir a ca’, e mi ch’a són a ca’ vót ch’a vaga via?” . Si trattava, a ben pensarci, di un libero rifacimento del classico “Natale con i tuoi”, ma un po’ più ragionato e motivato da una logica stringente e indiscutibile che inchiodava, col buon senso, chi proponeva l’evasione in una pur legittima uscita dagli schemi. Per mio padre non se ne poteva neanche parlare: Natale=famiglia e basta così. Questa battuta, che spesso in vista del Natale mi capita di rammentare e riecheggiare, mi serve oggi più che mai per affrontare il discorso natalizio.
Quando si parlava di persone costrette da motivi di lavoro, personali od economici ad abbandonare la propria città per andare a vivere in un’altra, magari molto lontana, o addirittura in un paese straniero, mio padre, con assoluta calma e serenità, annotava: “Con la me famija a gh’andriss sensa problema”. La famiglia quindi era il riferimento più forte che ci fosse, con essa si poteva anche andare in capo al mondo: non era vissuta come un vincolo, come un condizionamento, come una palla al piede, ma come una inesauribile opportunità, come un bene da custodire e coltivare.
Cari amici, che avete la bontà e la pazienza di leggermi, non dobbiamo avere paura di vivere il Natale guardando indietro, ai valori, ai sentimenti, ai legami forti. In questi giorni nel parlare con amici e parenti, nel porgere indirizzi augurali, nel commentare i fatti, nel riflettere sulla situazione, ho adottato con insistenza, a costo di ripetermi, uno schema di pensiero suggerito autorevolmente dallo scrittore Antonio Scurati: “Le migliaia di morti causa Covid impongono, urlano un obbligo morale a cui non possiamo sottrarci. Il Natale deve essere quindi religioso/laico, cioè capace di tenere insieme la comunità per ricordare i morti e custodire i vivi.”
La mini-serie di libri che ho dedicato alla vita della mia famiglia è sottotitolata in un modo che qualcuno può giudicare un po’ rétro: “si vive anche di ricordi”. Invece mi sembra che si stia rivelando una vera e propria chiave di volta per vivere seriamente il presente e prendere una sacrosanta rincorsa per il futuro.
Quando si vuole esorcizzare la tristezza che il Natale inevitabilmente e umanamente innesca sull’onda dei ricordi, dei rimpianti, dei rimorsi, dei lutti, si è soliti difendersi affermando che, in fin dei conti, Natale è un giorno come un altro. È vero, ma non è vero! Lasciamoci pertanto invadere da questa onda benefica, anche se può sembrare masochistica. In realtà è l’unica ciambella di salvataggio che ci rimane, quella appunto dei sentimenti, dei valori, degli affetti, dei legami famigliari, delle vere amicizie. Non si tratta di nostalgie, ma di attaccamento alla vita che sentiamo e vediamo vacillare sotto i nostri piedi.
Se poi vogliamo fare un breve passo per mettere in connessione il senso laico con quello religioso, dobbiamo ammettere che il Natale ha in sé qualcosa di straordinario e non possiamo far finta di niente: ci siamo abituati all’idea di un Dio che si fa Bambino. La religione cristiana è l’unica che crede in un Dio che si butta nella mischia dell’umanità, non per fare un viaggio di piacere, ma per condividere sempre e comunque tutto ciò che riguarda l’uomo facendosi uomo. Se ci pensiamo è semplicemente pazzesco. Concentriamoci quindi su questo dato e cerchiamo di vederne tutte le implicazioni esistenziali. Il resto è fuffa! O meglio, tutto trova un senso in quel Bambino. Solo così possiamo accogliere la luce gioiosa che promana da una stalla, senza avere paura di “puzzare di stalla”.