E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». È la scena natalizia per eccellenza, una sorta di rasserenante alleanza fra cielo e terra, l’annuncio di un permanente stile di vita nuova, il canto di una gioiosa e perpetua dichiarazione di pace.
Ho colto, non c’è che l’imbarazzo della scelta, alcuni titoli a livello mediatico in netta e clamorosa controtendenza. “Virus e brexit, Natale da incubo a Londra, Johnson rassicura: «Ce la faremo da soli»; “Ora i mercati temono l’apocalisse”; “Il virus si diffonde in fretta e muta di continuo. Ecco i segreti dell’ultima variante”; Caccia al virus modificato: tamponi per i 31 mila arrivati dal Regno Unito”; “Londra ha taciuto troppo a lungo. Ora lockdown integrale, arduo riaprire il 7 gennaio le scuole”; “I medici che non vogliono vaccinarsi cambino pure mestiere”; “L’allarme da Londra partito in ritardo. Gran Bretagna isolata, code ai supermercati”.
I casi sono due: o gli angeli hanno intonato un canto illusorio oppure noi non meritiamo l’amore di Dio e preferiamo crogiolarci nella guerra. Non ne va bene una: l’Unione Europea è geograficamente e politicamente divisa, chi è uscito dalla UE è nei guai, si illude di poter fare da solo e spande nel mondo virus a piene mani, i mercati riprendono a traballare, i medici cominciano a dubitare, i consumatori tendono ad accaparrare, gli studenti restano in bilico, gli scienziati pontificano, i politici litigano, i virus incombono. E stiamo vedendo solo una parte dei problemi, quello derivanti dalla pandemia del coronavirus, ne esistono di altri forse ancor più drammatici: guerre, fame, miseria, torture, discriminazioni, etc. etc. Anche concentrarsi solo sul covid 19 non è il modo migliore per fare chiarezza e giustizia nel mondo.
Il discorso di fondo è che, come dice lo scrittore Antonio Scurati, siamo incapaci di tenere insieme la comunità per ricordare i morti e custodire i vivi; ci disperdiamo nella diaspora tra cultura della difesa della vita e cultura della difesa del benessere economico, come se non fossero le due facce della stessa medaglia; ci accontentiamo di soppesare le responsabilità dei governanti a confronto di quelle dei governati, come se non fossero tutti sulla stessa barca; mettiamo in conflitto in modo manicheo la maggioranza e l’opposizione a livello parlamentare, come se non fossero le due espressioni della democrazia politica; solleviamo anacronisticamente il dualismo istituzionale fra Stato e Regioni, come se non fossero i cardini costituzionale su cui si basa la nostra pur fragile Repubblica nata dalla Resistenza; ci affidiamo all’asfittico, contorto, polemico e strumentale dibattito mediatico come se la stampa non fosse il quarto, ma il primo potere capace di fuorviare l’opinione pubblica; nutriamo una disperata fiducia nella scienza come se il mondo fosse riducibile ad un’aula universitaria.
Ritornando al pensiero di Antoni Scurati, dobbiamo ricordarci che ad ascoltare il messaggio natalizio erano i pastori, personaggi al di fuori del perbenismo, capaci di stupirsi e di stupire, di inginocchiarsi di fronte ad un bambino, di capire che c’è qualcosa che viene prima e va oltre la miseria umana. La tentazione di prescindere totalmente dalle difficoltà a costo di ricadere in una sorta di pericolosa alienazione, la reale possibilità di rimanere depressi e imbalsamati nella paura dell’incertezza sul presente e sul futuro, l’illusione di potersi rifugiare nello splendido isolamento anziché aprirsi ai drammi altrui: tutte reazioni istintive e comprensibili, ma sbagliate. Chiacchieriamo troppo, mentre il Natale è un evento silenziosamente sovversivo e noi dobbiamo essere dei rivoluzionari, dobbiamo resistere, per rimanere noi stessi e per, religiosamente o laicamente parlando, dare gloria a Dio e costruire con Lui la pace in terra.