Ho seguito in televisione le gare dei campionati europei di pallavolo maschile, un po’ per celia sugli effetti del caldo soffocante di questa interminabile estate, un po’ per non morire nell’opprimente clima affaristico del calcio-mercato. Ho cominciato mosso dall’onda dei ricordi, perché la pallavolo è lo sport che si impara e si pratica nelle palestre scolastiche, poi pian piano mi sono appassionato e divertito, indipendentemente dal risultato non molto soddisfacente, ottenuto dalla nostra squadra nazionale.
Chi legge si chiederà cosa ci sia di strano e di rilevante in questa esperienza da telespettatore sportivo, tale da indurmi ad inserirla nella mia cronologica trattazione. Non certo un appagante diversivo ai gravi problemi che ci opprimono: lo sport non dovrebbe infatti mai essere un’evasione dalla realtà, ma un modo per riempirla di contenuti agonistici. Non certo una manifestazione di puro tifo anche perché la pallavolo non si presta a questi sfoghi, monopolio indiscutibile del foot-ball giocato a tutti i livelli: le partite tra squadre di ragazzini scatenano spesso assurde risse fra genitori, le partite delle serie inferiori inducono nella tentazione di violenti scontri campanilistici, le partite di serie A arrivano persino a combattimenti fra ultras di opposte fazioni a sfondo politico nonché a sfoghi culminanti in cori razzisti, le partite internazionali rispolverano i fantasmi nazionalisti e guerrafondai. Tutto alla faccia dello sport che dovrebbe affratellare le persone e le genti, educandole al dialogo ed alla sana competizione.
L’anomalia che ho colto e che intendo esprimere consiste nel clima sereno e leale che si notava in queste palestre (senza indulgere all’enfasi retorica del volley che ha sicuramente i suoi pregi e i suoi difetti): niente proteste verso gli arbitri, l’attesa disciplinata del responso della moviola ripetutamente richiesta dagli allenatori delle squadre in campo, la festosa cornice di pubblico prevalentemente giovanile e femminile, il rispetto reciproco degli atleti vincenti e perdenti emergente da un fin troppo insistito rituale nello scambio di complimenti e di incoraggiamenti, il combattere fino in fondo senza ostruzionismi e senza drammi, il rapporto serio, rispettoso e cordiale tra allenatori e giocatori, una rara combinazione tra serietà professionistica ed appassionato divertimento. Persino le petulanti telecronache ed i commenti stereotipati o imbrillantati dei tecnici, chiamati a rimpinguare il già troppo consistente gruppo dei giornalisti di Raisport, finivano con lo stemperarsi nel contesto spontaneo e divertente della manifestazione.
Non potevo fare a meno di operare parallelismi col mondo del calcio: la colpevolizzazione sistematica degli arbitraggi, l’accoglienza polemica e sospettosa del Var, i cori sguaiati quando non triviali delle tifoserie, la violenza degli ultras che dettano legge, l’artificiosa gioia da parte di giocatori superpagati che coprono la loro mercenaria verve affaristica con gli sfoghi del dopo-goal, la drammatizzazione di quanto avviene sul campo per distrarre gli osservatori dagli intrighi e dalla corruzione che esiste fuori dal campo, l’invadenza degli allenatori padreterni, l’infinito calcio-mercato che rischia di falsare i risultati della stagione in corso.
Finalmente una boccata d’aria fresca nello sport sempre più inquinato e dopato, un modo accettabile e sereno di vivere un avvenimento: una festa, dove si faceva fatica persino a distinguere le tifoserie tanto erano accomunate nel clima gioioso della partita a cui assistevano col sorriso anche nei momenti di più intensa tensione agonistica.
Ci voleva per riappacificarmi con la vita. Sì, perché lo sport è vita! Viva la pallavolo. Non è nemmeno lontanamente paragonabile alla bellezza del calcio, ma sicuramente ha qualcosa da insegnare a quel mondo, che del pallone fa un pretesto per il raggiungimento di scopi impronunciabili, in campo, negli stadi, nelle società e nei media.