Il terrorismo che ci interpella

All’attentato terroristico di Barcellona ha fatto seguito il solito fastidioso diluvio di parole stucchevoli, retoriche e scontate. Un tempo i palinsesti erano ingessati e non si smuovevano nemmeno di fronte ai cataclismi, oggi tutte le reti televisive si buttano a pesce sulle cronache del dopo attentato alla ricerca di audience e con il contorno di raffiche di commenti   superficiali sparati con il copia incolla. La cronaca per scovare il testimone oculare, l’immagine choccante, con tanto di gara al macabro bilancio di morti e feriti; i commenti volti alla riproposizione dei ritornelli del nulla. Non si trovano nemmeno parole di pietà per le vittime, sommersi come siamo da un profluvio di parole vuote che consentono solo di dare aria ai denti cariati.

Tra le tante riflessioni a macchinetta la più ripetitiva e vuota mi è sembrata quella del “non facciamoci condizionare e non cambiamo il nostro stile di vita”. Ormai al lungo elenco dei luoghi comuni possiamo tranquillamente aggiungere il presuntuoso refrain occidentalizzante: si dice, di fronte a questi fatti drammatici e sconvolgenti, una cosa è certa, noi non dobbiamo cambiare niente. Non fosse altro che per sfogare la mia propensione ad essere bastian contrario, mi viene spontaneo, magari istintivo, pensare: forse sarebbe il caso di cambiare tutto, non per darla vinta ai terroristi, ma per migliorare un mondo che fa acqua da tutte le parti e di cui il terrorismo sta diventando la paradossale contestazione globale, umanamente cruenta e dolorosa, culturalmente di comodo.

Dopo avere giustamente affermato di voler combattere il terrorismo, dopo averne condannato la delirante ideologia, dovremo pure chiederci il perché di tante cose, dovremo umilmente analizzare la storia passata e recente per individuare le colpe della civiltà occidentale, dovremo mutare equilibri a livello internazionale. Non si tratta tanto di islamizzare la modernità o di modernizzare l’Islam, semmai di umanizzare la modernità e l’Islam.

Ad esempio: personalmente sarei molto più intransigente sugli alibi religiosi dell’Islam deviato e deviante e sarei più autocritico sugli assetti socio-economici che dovrebbero consentire l’integrazione dei migranti di provenienza islamica. Mi pare invece che, tutto sommato, ci sia più disponibilità a sopportare gli eccessi pseudo-religiosi rispetto al perseguimento dell’apertura laica della nostra società. Della serie: meglio una moschea che non disturba più di tanto, piuttosto che un lavoro regolare “rubato” al nostro mercato. La moschea infatti ci dà l’alibi per sovrapporre Islam e terrorismo, migrazione e violenza, mentre il muro socio-economico ci permette di sfruttare i disgraziati nei campi, nelle bicocche, nei lager, con la falsa giustificazione dell’autodifesa degli autoctoni.

Discorsi grossi, difficili, compromettenti, meglio rifugiarsi nel corner delle intelligence che non funzionano, della regolazione dei flussi che sta diventando un respingimento bello e buono, dell’illusione di risolvere il problema a parole. L’Isis ha subito dei colpi fortissimi a livello militare, ma non vorrei che venisse ributtata nelle nostre strade la guerra che si è combattuta in Iraq e Siria. Forse continuiamo a sparare cannonate contro le mosche senza capire che per combatterle bisogna ripulire il nostro habitat a tutti i livelli.

Che queste riflessioni siano in grado di farle gli attuali potenti della terra ho seri dubbi. Proviamo a farle da cittadini del mondo più che da abitanti dell’occidente.