La torta elettorale impazzita

Dopo i due turni per l’elezione a sindaco di una notevole quantità di comuni italiani, si è scatenata la solita sarabanda post-elettorale in cui tutti pontificano e tirano conseguenze, che saranno regolarmente smentite alla prossima consultazione. Si trattava di elezioni amministrative in cui generalmente emergono elementi di storia locale, in cui spesso prevalgono le personalità dei candidati sui rispettivi partiti di appartenenza o di supporto, in cui si formano liste civiche   fiancheggiatrici o contestatrici rispetto ai raggruppamenti politici tradizionali: è quindi difficile trarne direttive nazionali ed individuare comportamenti univoci da parte dell’elettorato.

Credo emerga comunque con insistenza un diffuso e crescente senso di sfiducia dei cittadini nella politica ( aumenta paradossalmente a livello delle istituzioni che dovrebbero, almeno territorialmente, essere più vicine ai cittadini), dovuto a tanti e diversi fattori: la corruzione, la confusione, l’incoerenza, l’inadeguatezza, etc. etc. Questa ansiogena e distruttiva voglia di rinnovamento non riesce più a trovare, né all’interno né all’esterno del sistema partitico, un riferimento ed un aggancio.

La sinistra fin che non ha governato, per il famigerato “fattore K”, che la escludeva pregiudizialmente dall’area ufficiale del potere, era il rifugio di quanti vagheggiavano un radicale cambiamento della politica italiana. Non era proprio così: perché la sinistra (mi riferisco al Pci) in campo politico, oltre al seppur episodico coinvolgimento istituzionale e solidaristico a livello nazionale, governava importanti comuni e regioni, in campo sociale governava, tramite il sindacato, il conflitto sociale, in campo culturale governava, tramite una forte egemonia dell’intellighenzia ad essa più o meno organicamente collegata, l’evoluzione del rapporto tra l’uomo e la società.

La compromissione sostanziale della sinistra col potere emerse malamente con tangentopoli all’inizio degli anni novanta e di lì la sinistra perse irrimediabilmente la sua verginità e non fu più l’automatica spugna di assorbimento della protesta antisistemica. Paradossalmente questo ruolo venne interpretato dal berlusconismo, che seppe improvvisarsi come proposta accattivante di rinnovamento di facciata dietro cui si nascondeva il peggiore riciclaggio del solito potere al limite del “regime”. Un ventennio di inganni, durante il quale e alla fine del quale, la sinistra seppe solo reagire con improbabili alternative, politicamente raffazzonate e programmaticamente deboli.

E siamo alla terza fase dell’antipolitica: quella virulenta, confusionaria e spregiudicata raccolta da Beppe Grillo e, in minor misura, dalla Lega, sopravvissuta e riciclata in salsa populista e nazionalista. Rimaniamo tuttora impastoiati in questo meccanismo anche se il M5S, nonostante gli sforzi di rimanere a galla sull’indistinto magma della protesta antisistema, sta perdendo credibilità e consenso (le urne non gli concedono quello sfracello di voti che i sondaggi gli assegnano: sondaggi pieni e urne vuote?)   e anche se la Lega di Salvini non riesce a smarcarsi definitivamente da Berlusconi per interpretare in solitario le spinte populiste destrorse.

Al di là delle farneticanti ipotesi di connubio tra queste due compagini, il cittadino insoddisfatto e sfiduciato si rifugia sempre più nel corner dell’astensionismo: il centro-destra a trazione leghista prova a rivedere e correggere il berlusconismo; il Pd prova a rilanciare, con evidente fatica e fastidiose conflittualità e contraddizioni interne, un’idea corposa e rassicurante di sinistra di governo; i cespugli sinistrorsi provano a sbandierare un’inutile, assurda, inesistente e, per certi versi ridicola verginità; il M5S perde inevitabilmente smalto nella spasmodica ricerca compromissoria di tutte le viscerali   paure economiche e sociali a cui annettersi e con cui connettersi.

L’unica forza politica degna di questo nome rimane dunque, volenti o nolenti, il PD, che tenta disperatamente, anche a prezzo della perdita di consenso, di dare risposte compiute al disagio e quindi entra in rotta di collisione con tutti gli altri attori presenti sulla scena. Rischia di fare la fine dei cani in chiesa, vale a dire di prendere calci da tutti.

Poco o tanto i risultati delle elezioni amministrative dell’11 e 25 giugno fotografano questa situazione tutt’altro che rassicurante. Aggiungiamoci a livello territoriale le cucchiaiate di localismo inconcludente, di civismo improvvisato e di leaderismo artificioso e otterremo la torta impazzita uscita dalle urne. Quando non si rifugia nell’astensione, il cittadino corre dietro ai demagoghi di turno. Mi fermo qui. Almeno per ora.