La statistica fra Trilussa e Pirandello

Il mio rapporto difficile con la statistica risale ai tempi dell’università: l’unico esame di fronte al quale dovetti chinare la testa, ritirandomi dalla prova scritta, successivamente ripetuta, e rimediando alla fine un voto piuttosto basso, dopo una prova orale stiracchiata. Tutte le volte che vengo in contatto con dati statistici scatta in me una specie di repulsione: è proprio vero che la scuola spesso segna pericolosamente e per tutta la vita l’approccio, positivo o negativo, a certe discipline.

Questa premessa/confessione per giustificare la mia allergia ai dati statistici riguardanti l’andamento dell’economia ed in particolare a quelli relativi all’occupazione: balletti di cifre che tutti si affrettano ad interpretare a loro modo ed effettivamente leggibili in chiave pirandelliana.

Le ultime percentuali diramate dall’Istat segnano un leggero miglioramento dell’occupazione, quella giovanile in particolare, rispetto ai mesi precedenti. C’è un però: in assoluto il numero degli occupati rimane stabile e il dato percentuale in crescita è dovuto al fatto che ci sarebbero 83.000 persone in meno che cercano lavoro. Se ho ben capito è diminuito il numero dei pesci che nuotano nel bacino e quindi per quelli che rimangono è relativamente più facile sopravvivere (una versione aggiornata della statistica trilussiana). Quegli 83.000 cosa penseranno di fare? Riprendere a studiare, lavorare in nero, stringere la cinghia, vivere di espedienti, mettersi a carico della famiglia, aspettare la non-pensione, traccheggiare in attesa di tempi migliori? Difficile stabilirlo, possibile solo fare delle (strane) ipotesi.

Un altro dato riguarda il tasso di occupazione, vale a dire il rapporto fra gli occupati e la popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni: il 57,5% come nel 2004. Una percentuale oggettivamente bassa, che può dipendere da tanti fattori, ma che certamente evidenzia una certa staticità della nostra economia.

Le mie riflessioni sono due: una di metodo e una di merito. Quanto al metodo ritengo che i dati statistici sparati alla viva il parroco non servano a nulla e creino solo infondate aspettative o falsi allarmi. È come quando si leggono in proprio i referti delle analisi del sangue: presi alla lettera e visti con l’occhio del profano sembrano preludere ad una salute ferrea o ad una morte imminente. Poi, esaminati dal medico, contestualizzati e relativizzati, perdono quasi sempre la loro drammaticità e recuperano la loro concretezza.

Nel merito, mentre tutti si affannano a considerare i dati come una pagella per i governanti in carica o per quelli passati, sono propenso a ritenere che, nel nostro sistema, la politica economica abbia effetti molto limitati e affatto immediati. Non affanniamoci pertanto a bocciare o promuovere il governo, il ministro, la nuova legge: questa è roba da fumo negli occhi. La politica non è la matematica e quindi va giudicata senza usare improbabili termometri, men che meno quelli economici.

Se un tempo si davano giudizi politici in base alle ideologie, oggi si rischia di votare con gli indici istat alla mano o, ancora peggio, con questi indici interpretati ad uso e consumo dei demagoghi o degli arruffapopolo di turno. Dalla astratta teoria alla brutale pratica. In mezzo ci dovrebbe stare il giudizio ragionato e motivato. In mezzo cioè dovrebbe esserci la democrazia, che viene prima e dopo il voto. Invece adesso si tende a sostituire il dibattito con una cliccata, il voto a un candidato con un sì o con un no sulla scheda o sul computer. Semplice ma pericolosissimo.