Fra Travaglio e Ichino ci metto il ditino

Si è fatto un gran parlare e scrivere del voto espresso dai senatori contro la decadenza dalla carica del loro collega Augusto Minzolini condannato in via definitiva a due anni e sei mesi per peculato, reato commesso quando era dipendente Rai.

La vicenda può essere affrontata da diversi punti di vista. Escludo a priori l’aspetto prettamente legale, quello cioè se l’intervento del Senato, in base alla legge Severino, sia da considerare una mera presa d’atto della fattispecie concreta comportante l’automatica decadenza o se comporti una valutazione del caso, non per ritoccare o riformare la sentenza (cosa impossibile per la netta separazione dei poteri), ma per esaminarne gli aspetti influenti sull’ applicazione della decadenza. Il concetto giuridico di decadenza, stando alle mie scarse reminiscenze di carattere giuridico, dovrebbe comportare un automatismo, ma, come dicevo, non voglio entrare in questo merito, lasciandolo agli specialisti.

Stando alle dichiarazioni dei più loquaci e trasparenti senatori PD, che si sono oltretutto smarcati rispetto all’indirizzo del loro gruppo politico,   i componenti del Senato avrebbero soprattutto considerato la contraddittorietà delle diverse fasi processuali a carico di Minzolini, la partecipazione alla sentenza di condanna di un giudice ex-senatore appartenente ad un gruppo politico obiettivamente ostile a quello di Minzolini, la condanna pesante rispetto alle richieste della Pubblica accusa, come elementi tali da comportare il serio e coscienzioso dubbio rispetto all’applicazione della decadenza.

Non tocca certo a me rovistare nella coscienza dei senatori, nella loro buona fede, anche perché tra di essi, mi riferisco a quelli del PD, non ci sono certo amici sviscerati o subdoli di Minzolini e della sua parte politica, né personaggi inclini a manovre di palazzo, che qualcuno si è affrettato a vedere, né appartenenti a quella casta impenetrabile tendente a compattarsi ed autoassolversi, al cui generico assalto si sta dedicando il populismo in tutto il mondo.

Da quello che ho potuto intuire, se mi fossi trovato al loro posto, sul piano personale mi sarei comportato probabilmente come loro: non me la sarei sentita di buttare fuori dal Senato un collega eletto dal popolo, sulla base di un procedimento giudiziario alquanto strano e tutt’altro che lineare. È pur vero che la legge (la Severino) vuole difendere le istituzioni dalla presenza di persone che ne possano minare la credibilità e l’autorevolezza, essendo stati condannati per reati confliggenti clamorosamente con il profilo costituzionale di chi ricopre cariche pubbliche, ma bisogna sempre essere cauti e sereni nello squalificare o meno una persona comunque si chiami ed a qualsiasi partito appartenga.

Sgombrato il campo dai risvolti personali del voto, resta l’aspetto politico: è stato politicamente opportuno lasciare libertà di voto ai senatori dem? A parte il fatto che tale libertà non è gentilmente concessa dal gruppo di appartenenza, ma dalla Costituzione italiana, resta il discorso dell’indicazione politica che un gruppo ha il diritto/dovere di dare ai suoi aderenti. Sulla questione concordo pienamente con il ragionamento del ministro Del Rio: «Il Paese ha bisogno di chiarezza, non devono esistere privilegiati di fronte alla legge. I nostri senatori votano come credono, ma non avrei lasciato la libertà di coscienza. Il caso Minzolini va oltre il merito: abbiamo dato un messaggio sbagliato. La legge Severino ha un principio giusto: chi governa ha il dovere di essere più trasparente di chi è governato». Su questo piano le controdeduzioni dei senatori dissenzienti dalla linea del gruppo PD (oltretutto in commissione i componenti del PD avevano votato per la decadenza) appaiono rispettabili, ma piuttosto deboli: in buona sostanza hanno prevalso le motivazioni squisitamente personali rispetto al significato politico del voto.

C’era sul tavolo senatoriale anche il precedente relativo al senatore Antonio Azzollini risalente al 2015. Su di lui il Senato respinse a suo tempo la domanda di arresto formulata dal Gip, poi annullata dal giudice del Riesame su richiesta degli stessi pm. Sul punto si è scatenata una ulteriore polemica fra Pietro Ichino e il noto giornalista Marco Travaglio. Il primo, uno dei senatori dem contrari alla decadenza di Minzolini, ha enfatizzato l’importante precedente creando un po’ di confusione sulle vicende processuali di Azzollini e chiedendo a Travaglio di chiedere scusa per aver criticato il voto della maggioranza in Senato che nel 2015 negò l’arresto del senatore Azzollini. Naturalmente e prontamente Travaglio, col suo solito piglio saccente e giustizialista, non ha mancato di precisare che Antonio Azzollini rimane a tutt’oggi rinviato a giudizio o rischia il rinvio a giudizio per diversi reati.

Al di là della confusione venutasi a creare e della impossibilità caratteriale di Marco Travaglio ad ammettere un errore e ancor meno a chiedere scusa (quando si è perfetti non si sbaglia mai…e lui si crede perfetto), una cosa è certa: il Senato respinse la domanda di arresto per il suddetto senatore e qualche mese dopo la magistratura competente annullò l’ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip e bloccata appunto dal Senato. Evidentemente erano più che fondate le perplessità in merito al fumus persecutionis, se successivamente il provvedimento è stato annullato.

Il dibattito deve essere quindi ripulito: smettiamola di “giustizializzare” la politica, (la critica pur spietata è ben altra cosa); non accetto il discredito generalizzato dei parlamentari e non credo che essi vogliano comunque assolvere o condannare i propri colleghi invadendo il campo della magistratura; dovrebbero in coscienza solo garantire gli stessi colleghi da eventuali abusi o forzature d’autorità. E nel caso suddetto (quello di Azzollini) è successo proprio così come   è avvenuto per il senatore Minzolini (la questione è diversa, ma con accentuati profili di similitudine): il Senato non li ha giudicati innocenti, ma, nutrendo qualche dubbio sulle procedure giudiziarie cui sono stati sottoposti, ne ha respinto l’arresto in   un caso e ne ha messo in discussione la decadenza nell’altro.

Altro è il discorso del trattamento diversificato riservato ai membri del Paralmento rispetto agli altri normali cittadini. È pur vero però che un parlamentare svolge un ruolo particolare e la legge gli concede alcune tutele per un più libero espletamento del suo mandato. Un tempo esisteva una vera e propria immunità. Oggi le garanzie sono assai più limitate.

Altro il discorso di rivedere e migliorare la legge Severino, chiarendone magari meglio l’ambito applicativo e dando il compito di far scattare o meno la decadenza ad un organo terzo rispetto alle aule parlamentari.

Altro discorso ancora è quello dell’opportunità politica di ricorrere con troppa frequenza al voto di coscienza. Non dovrebbe diventare una comoda scappatoia all’assunzione delle proprie responsabilità: questo però è un problema dei partiti da affrontare anche alla luce della loro già scarsa credibilità.